Il mio tempo è come le medaglie: ha due facce. C’è la parte insieme ai bambini, e quella da sola.
La parte in cui mi occupo di loro, interagisco, parlo, gioco, ballo, scherzo, con l’eco delle loro risa che sembrano davvero una pioggia di riso su un sagrato a festa. E la parte in cui si occupano da soli, o guardano la televisione, in cui mi dedico a cose mie, sbrigo faccende tediose, o mi diletto in spazi liberi e preziosi.
Eppure sul confine, tra l’una e l’altra, tra il mio tempo e il loro, esiste un terzo tempo, che è un varco magico: il tempo muto e nascosto dell’osservazione.
Difficile cercarlo apposta, non abbiamo l’abitudine di lasciare ciò che stiamo facendo per restare a guardare. Guardare senza “fare” è così poco rispondente all’efficientismo, ai ritmi che ci inseguono o che noi abbiamo inferto a orologi ignari e innocenti. A me ci volle una newsletter, da un sito americano su genitori e figli, diceva: “Avete mai provato, semplicemente, a guardare i vostri figli?”
Non perché passi di lì mentre vai in bagno, e non puoi evitare di inorridire davanti al caos disseminato. Non perché sei diretta in camera a riporre le lenzuola asciutte, o in corridoio a recuperare una vecchia rubrica telefonica. Non perché è l’ora di cena e li chiami a raccolta, o perché loro ti chiamano e tu se puoi, se hai voglia, se hai tempo, accorri a vedere quale meraviglia irrinunciabile vogliano mostrarti.
Non perché capita.
Perché in montagna davanti al camino, quel pomeriggio, a una vacanza di Capodanno con la parrocchia, lasciavi svanire le chiacchiere, i nomi dei ragazzi di cui ti stavi innamorando, il gomito del vicino nelle costole, seduti su una panca troppo corta, e ti eri messa a guardare, semplicemente, il fuoco. Le sue lame incandescenti, come rotolano le luci e si ribalta la cenere. La mano di non sai chi a infilare altra legna, un cono di carta da giornale. I tizzoni che lampeggiano. E ti bastava.
E quella volta al mare, sola su uno scoglio fuori stagione, ti eri persa nelle ore a osservare sconosciuti che aspettavano l’onda giusta con la tavola da surf sotto braccio, e ti sembrava di sapere che il mare, quella sera, non gliel’avrebbe data, l’onda giusta. Ma stavi a guardare, perché sembrava che il mondo fosse tutto lì, in quel tratto di spiaggia, in quel lembo di costa, di terra, in quei battiti di esseri umani e di onde.
E ancora, quando nevica in città, incolli il muso al vetro come facevi trent’anni fa, perché certe cose non hanno età, e anche se molti si lamentano che la neve in città “è brutta perché poi si scioglie”, tu li deridi, ché anche la vita poi “si scioglie”, eppure mica la rinneghi. E anzi credi che la magia è proprio vederla in un posto insolito: la neve in città è un privilegio, una primizia. E allora resti a guardare.
E come queste, per fortuna, mille altre piccole meraviglie resistono agli anni.
Per questo vale la pena, a volte, fermarmi sulla soglia: zitta, in punta di piedi, l’occhio che sporge appena, il corpo schermato dallo stipite. Immobile, a guardare i miei figli. Che in quel momento il mondo è tutto lì, in quelle teste immerse in storie incredibili di mattoncini di lego, posate e ristoranti, macchine e parcheggi di cuscini per la sala. In quell’abbraccio che si stanno dando senza ragione. Nel biberon che allatta una bambola, nella copertina adagiata su Winnie the Pooh.
In quelle palpebre abbassate, specchi lontani e vicini perché sognano qualcosa di bello quanto loro, sei certa, qualcosa che gli somiglia. Tuoi e non tuoi. Figli dei tuoi occhi che restano a guardare.
Il mondo è tutto lì.