Non ho mai detto a mio marito che ero incinta.
Non sarei stata capace.
Non sono una che aspetta la solitudine, si caccia nel cesso di un ufficio e galoppa tra la paura e la gioia. S’immagina come e cosa, la sera, lui torna: un bavaglino sul tavolo della cena, due babbucce a uncinetto e poi una bottiglia di vino da cui non oserà bere.
Io a mio marito non avrei mai potuto fare una sorpresa, e forse siamo un po’ madri già in questo: nel modo che abbiamo di infilarci in quello stick, scartarlo e attendere. O non attendere.
Parlavo, l’ho sempre fatto. Anche troppo.
Tanto per cominciare il rapporto non protetto è un fatto cosciente: il figlio lo cercavamo, lo sapevamo che da quel piccolo attimo era come stare a guardare da un dirupo.
Poi cominciava la conta: chissà oggi, chissà domani. Se. Quel girino va a spasso nella direzione giusta, se ho davvero un uovo grosso come una piazza e loro s’incontrano come innamorati, si piacciono, si mescolano.
Forse c’è una piccola resa dopo qualche giorno, l’animo umano ha le sue accortezze per non farti ammazzare dall’impazienza, così apri la porta della vettura e mica fa un suono diverso: è sempre la tua macchina, sempre grigia, sempre uguale, quella. Lo stesso al tavolo dell’ufficio, nelle file ordinate dei palazzi, nel desco apparecchiato. Non è cambiato niente.
Solo che poi risali, come i bambini quando cominciano le caselle del calendario di Natale.
Io ero così. Ero una sentinella al posto di guardia: se il seno si gonfia, se ho male da qualche parte, se ho già nausea, se posso fidarmi del mio istinto che già sa.
E dal mio avamposto riferivo al marito.
Non ero capace di tenermelo per me. Lui da sotto raccoglieva, così come veniva: se quel giorno barbellavo per la paura, se il mattino dopo ero già delusa per un sintomo sfumato, se invece impennavo in una svolta certa.
Io, quando arrivavo al test, lo sapevo già che ero incinta: l’ho sempre saputo, tutte le volte.
Tutte le volte gli avevo già gridato da lassù, da quel nido dove solo una quasi mamma sta: “Sono incinta!”
Poi compravamo il test di gravidanza. Entravo nel bagno di casa, lui aspettava fuori coi passi dei padri oltre le sale parto.
Lui era già padre: in quei passi, in quel sapere che gli avevo messo in palmo.
Posavo lo stick nel bicchierino dove avevo raccolto le urine che traballavano come fossi in treno. Poi lo chiamavo.
Non gli ho mai detto “sono incinta” con un bastoncino nascosto dietro la schiena: perché quello lo sapeva già.
Gli mostravo la conferma dall’altra parte del dirupo di quei quindici giorni ormai passati, e sorridendo dicevo: “Infatti”.