In Italia, una donna ha il diritto di scegliere di interrompere una gravidanza entro 90 giorni dal concepimento. Oltre quella data, l’interruzione di gravidanza può avvenire solo ed esclusivamente per motivi di eccezionale gravità, che devono essere supportati da ampia documentazione medica.
L’aborto, o interruzione di gravidanza volontaria
Nel nostro Paese la pratica dell’interruzione di gravidanza è regolamentata dalla tanto contestata legge 194/78.
Entro i primi 90 giorni, una donna può scegliere di sottoporsi ad un’interruzione volontaria presentando un certificato che attesti lo stato gravidanza ed un documento nel quale sia formalizzata la volontà di interrompere la gestazione.
Trascorsi sette giorni dall’avvio della pratica, se la donna non ha cambiato idea, si procede all’intervento, che può avvenire per via farmacologica oppure chirurgica.
Ma cosa succede se una donna decide di interrompere la gravidanza dopo aver superato il termine dei 90 giorni?
L’interruzione di gravidanza dopo i 90 giorni
Come abbiamo detto, una donna può decidere autonomamente di interrompere la sua gravidanza entro il terzo mese di gestazione, che coincide, appunto, con i 90 giorni dal concepimento.
Superato questo termine, la decisione di porvi fine non può più essere esercitata dalla donna, ma può essere presa solo in caso la prosecuzione della gravidanza rischi di mettere in pericolo la vita della donna, o se il nascituro sia affetto da malformazioni estremamente gravi, incompatibili con la vita o che mettano a rischio la salute della madre.
L’aborto praticato dopo i 90 giorni e, di solito, non oltre la 24ma settimana di gestazione, non può avvenire solo per volontà della gestante, ma deve essere supportato dal parere di uno o più specialisti che attestino che la gravidanza rappresenta un pericolo reale per la salute della donna.
In questi casi, la pratica avviene attraverso la somministrazione di farmaci che favoriscono la dilatazione del collo dell’utero e la conseguente espulsione del feto.