Guardi l’orologio del forno: le diciotto.
Ti sei alzata con una scusa, un bicchier d’acqua, un pugno di noci. Ti sei sporta piano dalla finestra, come un segreto: il piccolo che ti dorme tra le braccia, tu che scruti quando rientra suo padre.
Lo immagini là, l’indice sull’ascensore, i colleghi che domandano. Pensi al tuo silenzio cui nessuno ha fatto domande.
Stamattina ti ha dato un bacio sulla fronte, scostando quella timida frangia che avevi accorciato prima del parto. Poi ha baciato il piccolo, due, tre volte, come a farne scorta.
Hai sentito la chiave nella toppa, suoni di passi giù per le scale e poi il suono di una trombetta, quella della sua bici che ti saluta ancora, di sotto in strada, mentre la inforca.
Avevi immaginato tutto: guardare uno stick con due strisce, vedere una pancia che cresce. Il parto, paura e impazienza. Avevi sognato quel piccolo finalmente con voi. Ma il primo giorno sola…a quello non avevi pensato.
Ti sei sentita persa, come quel ventre che non è più pieno, e intanto non è nemmeno quello che conoscevi: la casa si è svuotata così, con un clack che sembra un frastuono.
Sei rimasta a sedere, il piccolo al seno. Poi l’hai messo in una cesta, vicina alle faccende che ti sei imposta: c’è un amore, un vapore, in giro, veste le stanze più di quegli adesivi, dei disegni che avevi incollato alle pareti della sua cameretta. C’è una cameretta, ma non la usi ancora. Un attimo piangi senza ragione, poi le lacrime s’invertono, scendono perle che fanno luce. Hai la responsabilità che ti sta larga, nuove abitudini da inventare. Mani che tremano ancora nella presa, e orologi che sembrano lentissimi.
Qua e là ti arriva un cenno, lui lontano e vicino: “Come sta andando?”
E finalmente arriva la sera: un altro giro nella toppa.
Lui entra, viene, lo prende. Li guardi. E in quelle dita che percorrono lievi la sua boccia leggera di capelli capisci che non sei mai stata sola.