Stesa su questo lettino. La carta pulita, il rotolo che gira, al fondo, memoria di altri pazienti.
“Resta a torace scoperto” mi ha indicato. Obbedisco.
Accende il monitor dell’ecografia, poi con quella specie di joystick incomincia.
Le pareti sono pallide, tre quadri minuti, figure stilizzate di bambini o pupazzi. Un dispensario di farmaci di ogni sorta a tergo. Alla mia sinistra un armadietto: volumi di Medicina Interna a numerazione crescente. Perché, la medicina può essere anche “esterna”? Scatole di Prostamol, un libro che recita “La medicina in gravidanza.” Mi chiedo quali medici ricevano in questo studio. Quante storie raccolga.
Tra me e quel mobiletto a vetrina, il monitor: non l’ho guardato una sola volta, non ha importanza. Mi affido al cardiologo come una zattera alle correnti. Non ho il protagonismo di un tempo, di quelle molte volte che rivendicavo: “Può girarlo, un po’, per favore?” e cercavo una testa, cercavo gli occhi, la farfalla del piccolo cuore, la lunghezza del femore.
Il medico sale, scava tra le costole. Va a cercare i ventricoli, scruta le aperture valvolari. Mi ha fatto girare un po’ sul fianco sinistro, il braccio piegato sotto la testa, l’altro dimenticato lungo un corpo vuoto.
Pigia ancora un po’, insiste su un punto, aziona il volume. E lo stantuffo del battito inonda la stanza.
Non fatemi sentire il cuore. Posso lasciarmi fare, esaminare, studiare. Distrarmi osservando l’intorno, pensare alle inezie comuni, alla sera che arriva, ai miei bambini dai nonni. Finché c’è silenzio. Ma il suono è come un odore, arriva puntuale alla corteccia, e se volete che resti qui, stesa, ferma, obbediente…se volete visitarmi fatelo, ma non lasciatemi ascoltare il battito.
Penso a quando il ventre era pieno, un acquario in espansione. Ora è una risacca che ha visto tre piccoli cuori. Quando stavo supina, lo stesso gel trasparente che scivola adesso imbrattava il fondo della maglia, appena arrotolata. La vita dei pantaloni abbassati sotto la linea nigra. E non serviva restare a busto scoperto. Bastava un oblò di pelle tra i vestiti, e lì dietro ci vedevi il mare.
Penso alla sala d’attesa, mani incrociate che segretamente aspettano la domanda di un chicchessia: “Di quanti mesi è?” Quello stesso ecografo, un appuntamento come una ricorrenza. Il suo puntale un microfono della vita.
Com’era svelto quel cuore, impaziente. Nelle ecografie e nei monitoraggi, nelle prime settimane e nelle ultime, le bende rosa e azzurre fino al travaglio. Com’era tutto senz’esser nulla in questo mondo. Scalpitava inseguendo sua madre e la voglia di nascere.
Per favore non fatemi sentire il cuore.
È così lento, questo pulsare, non ha la fretta la voglia la foga. Rintocca senza promettere. Saldo nell’abitudine. Zoccola sul selciato, come i cavalli che rientrano alle scuderie.