Il punto è: che siamo sempre imperfette. Imperfette non tanto in quello che facciamo, ma nella nostra soddisfazione. Il punto è: ci diamo sempre addosso.
HAI PRESO LA PORTA, SEI USCITA DI CORSA. Mentre il tasto dell’ascensore s’illumina ti chiedi se hai salutato il padre dei tuoi figli: “Gli ho dato un bacio, sì? No?”
Pensi che non fa niente, non ci si accorge di cose tanto piccole. Però ti senti in colpa.
Hai corso per le strade, hai corso per la città, fuori dal metrò quell’uomo all’angolo, scarpe sbucciate sulle punte di mille giri più calmi del tuo, la voce imbracciata dalla flemma come uno stendardo, ogni mattina, chiedeva due soldi: glieli hai dati, non per carità vera, né per pietà. Glieli hai dati per fretta, per fare prima: l’euro che tieni nella tasca per il carrello dell’Esselunga. Un lancio rapido nel suo cappello rovesciato al sole, e poi dritta verso l’ufficio.
Hai corso lavorando, hai mangiato correndo. Ti sei fermata per un caffè, hai risposto a una chiamata emersa da lontano felice come un bouquet, e per un attimo ti è sembrato di essere felice.
Hai pensato ai tuoi bambini a scuola e al nido: ti mancano.
Hai pensato alla mattina spesa senza pensarci: ti sei sentita di nuovo in colpa.
La sera alle sei spaccate addormenti il pc, il dito sul tasto di un altro ascensore. Francesco ti saluta con garbo: “Ciao, a domani”, sorridi falsa, di sbieco al collega che non sopporti, tra te e te pensi: “Che se ne vada pure aff…”
E sei di nuovo sotto, il mendicante, il metrò, la strada, due commissioni, e poi a casa.
I figli ti galoppano incontro, li infarini di baci. Due minuti dopo, però, si azzuffano per un cartone: non è colpa loro, se hanno gusti diversi. Non è colpa loro, se hanno bisogno di te. Non è colpa loro se sei stanca, nervosa, e quella pioggia fitta fitta di baci per te già bastava. Così alzi la voce, li sbrani in un monito: “Basta! Non ce la faccio!”
Ma non è nemmeno colpa tua: sono facili, i bambini, ma sono anche impossibili.
E finalmente è notte. Fatichi in quei tempi morti di lavar loro i denti, impigiamarli e infine leggere un libro che conosci a memoria. Ti racconti cento volte che poi rimpiangerai il momento. Ma non basta.
E quando, il mattino seguente, suonerà la sveglia, aprirai gli occhi, scoprirai che non è ancora domenica, e ti riprometterai di essere migliore.
TU, INVECE, HAI SALUTATO TUTTI, tuo marito e i figli, tranne l’ultima, e hai guardato la casa di nuovo calma: non hai nessuna fretta, devi passare il tempo fino all’ora del suo sonnellino. Ti sei chiesta se hai dato un bacio al padre dei tuoi figli, forse sì, forse no. E ti sei sentita in colpa.
Hai preso due giochi e una casetta della Peppa, ti sei seduta a terra come una brava tata, la piccola che quasi gioca da sola, e hai pensato che potevi lasciarla e andare a farti un giro al pc.
Poi sei rimasta, hai aspettato che le venisse sonno, e quando finalmente l’hai messa a letto, già mezza addormentata per esser certa di non dover tornare, ti sei sentita libera e felice ancora più che a pascolare la Peppa.
Si è svegliata all’ora che volevi tu, e se sgarra ci resti male come ti facesse un torto: il tuo tempo è oro che filtra a malapena dalla trama fitta della maternità. Devi lottare, a volte, anche per un caffè.
Mentre dormiva la piccola e gli altri erano a scuola non hai pensato a loro, e se ci hai pensato non ti mancavano.
Sei attaccata ai tuoi piccoli spazi, oblò indispensabili a guardare un mondo, là fuori, che vive e lavora senza di te. A volte lotti per non sentirti ingrata.
Alle cinque recuperi i bambini a scuola, li porti fuori a fare merenda, li porti fuori per fargli una sorpresa: il grande infastidisce la piccola, l’altra lamenta qualcosa. Ti sbrighi, li imbocchi quasi, nonostante l’età, paghi e vieni via: speravi in chissà cosa, e invece è stata dura.
A casa accendi ogni qualsivoglia supporto tecnologico che valga a tenerli buoni.
Hai raccontato loro la tua giornata (non c’era molto da dire, hai pensato), hai chiesto di raccontarti la loro: hanno detto due parole, dopo larga insistenza, poi sono sgattaiolati via come liberati. Hai pensato è colpa mia, sbaglio qualcosa. E, forse, è anche vero.
E finalmente è sera: si mangia cibo cotto in cinque minuti, vorresti fare grandi cose ma poi sei troppo stanca. Il tempo dell’arrosto l’hai bruciato sedando litigi e riordinando stanze. In fondo per essere buone madri non è indispensabile essere buone cuoche: te lo dici, ma non ti convinci.
E ora è notte: non hai avuto grandi avventure, domani suonerà la sveglia, e più o meno ripeterai le stesse cose. Sarai più attenta, più gentile, più creativa. O forse no.
Hai corso o non hai corso, il tempo è poco, il tempo è lento, hai ascoltato tuo figlio e poi ti sei distratta, volevi fare di più, volevi fare meglio: e se quello che fai fosse già ottimo?
Il punto è: che siamo sempre imperfette. Imperfette non tanto in quello che facciamo, ma nella nostra soddisfazione. Il punto è: ci diamo sempre addosso.
Ce l’abbiamo, un’avventura: si chiama essere madri. Si chiama Fabio, Aurora, Davide, Sofia, Alice, Pietro, Anna, Luca.
E non la stiamo cavalcando così male.