C’è quella luce al neon, sopra, sul soffitto quadrato di questo piccolo bagno. La tenda plastificata della doccia, una pattumiera che riempirò in fretta. Un ferro lucido, piegato a U: il mio asciugamano giallo ricamato a punto croce da mia nonna.
Sono entrata piano, mi hanno ammonito: “Quando se la sente, va in bagno, con calma.” Mi sento bene, le gambe hanno retto lo sforzo, tremano appena, impallidite da quel chiarore freddo. Sollevo la camicia da notte, calo gli slip a rete. Non ho il coraggio. Resto lì un attimo, neanche fosse questa, sciocca, insensata, la più grande paura di una madre che ha appena partorito. E dai, hai fatto ben altro! mi conforto.
Mi risolvo a sedermi sulla tazza: ce l’ho fatta, non ho dolori, le stesse parti che hanno da poco concluso un miracolo sono già pronte, sveglie. Il timore si allenta, abbasso gli occhi: sotto i lembi alzati della camicia una pancia molle.
È la prima volta che la guardo. La tocco con le mani, una carezza per capacitarmi, un pizzicotto per sentirne la morbidezza. Poche ore fa, tre, quattro, quante erano?, tutto era ancora lì dentro.
Ora Sarah è due metri più in là, oltre un muro sottile, oltre una pancia-universo. Nel suo lettino a ruote, le sbarre attorno, le braccia in su, i pugni chiusi. Non sa. Nemmeno io so. Sono seduta nel luogo meno romantico che si possa immaginare, e sono in capo al mondo. Sono ferma qui, sola, e il cuore gira, sbronzo: sono frastornata e incredula.
La logica mi spiega le cose: mia figlia è nata, è uscita dal grembo, è di là, è mia, è Sarah. La pancia se le rimangia. E io rimango, seduta, prima che la fretta di andare in camera, a toccare la mia bambina, mi alzi in piedi, con uno scatto impaziente. Rimango qui un attimo, e mi sembra che un cosmo felice mi abbia ingoiata.
Il giorno dopo siamo tutte nella nursery: un lavabo grande, appena entrate, al di qua della vetrata. Ci hanno detto: “Solo un genitore.” Ero passata di qui pochi giorni fa, avevo visto le puericultrici che maneggiavano corpi minuscoli e avevo chiesto, in preda allo stupore: “Ma sono tutti prematuri?”
“No, signora, macché. Sono così, non si ricorda più?”
Non ricordavo come sono piccoli i neonati, con quelle chiappe a punta, fatti ancora più corti dall’arricciatura che si portano dietro dall’utero, che metteranno un po’ a dimenticare. Ora tra quei falsi prematuri, c’è la mia bambina, la pelle rosa, la peluria sulle scapole, che sembra debbano crescerle le ali.
Tocca a noi, Sarah: ieri ti hanno vestito le ostetriche, tuo padre era con loro, io ero ancora in sala parto, a spinger fuori la placenta. È la prima volta che ti spoglio, sarà la prima che ti vesto. Non hai sporcato nulla, non in una sola notte. Ma ti ho preso un body pulito: un po’ per non fare brutta figura (le fai il bagno e non le cambi i vestiti?), un po’ perché sono impaziente di vederti scivolare dentro tutti quei pigiamini che ti abbiamo comprato, di vedere che da oggetti diventano vita. Di guardare come li riempi, o non li riempi. Come, in effetti, ci affoghi dentro.
La puericultrice ha un piercing al naso, i capelli corti, tanta voglia di parlare. La seguo con la mia logorrea, balbetto a volte, oggi sono stanca, l’adrenalina è scemata. Tremano le mani, ti porgo a lei. Quella ti prende, e mi mostra come lavarti.
Sono una madre da zero, anche se hai già un fratello. Ti prende su come un salame, ti passa sotto il getto. Mi è quasi difficile lasciarti a lei. Sei ancora mia. Sei già mia. Ha deciso di passarti l’olio dappertutto: “Non mi piacciono le pettinature ordinarie.” Ti fa una banana ai capelli, a quei quattro peli rossicci che hai sul cranietto. Sei unta che di più non si può. Scusami, non ho saputo contraddirla.
E finalmente ti riconsegna alle mie mani. Ho scelto un pigiamino rosa, devo arrotolare le maniche. I piedi si perdono, le forme previste sono tasche vuote. Profumi. Profuma questa mattina, l’ottobre che avanza. Non avanza nulla: divoro ogni momento, ogni prima volta.
C’è uno sciame di minuti giganteschi, attorno al grande evento. Piccole cose tenaci, che resteranno. Queste sono soltanto due appunti. Maiuscoli.
Bello questo racconto, mi ha fatto commuovere, come tutti i tuoi racconti!
Grazie caro… piccola cosa rispetto all’incredibile e deliziosa tempesta della nascita