C’erano mattine che il sonno era così aggressivo da piangere. C’erano mattine che invidiavo mio marito. Succede ancora. Anche se adesso dormo, i figli crescono, si aprono spazi che quasi ti chiedi adesso cosa faccio?
In certi momenti ho pensato che la maternità non fosse questo gran privilegio. Avrei voluto essere come il padre dei miei figli, forse tutta la vita di un uomo è così: gli basta un gesto, un’azione rapida, dentro e fuori. Siamo noi, quelle che restano: con la vita che cresce dentro, con la paura, la responsabilità. Con quelle mattine di sonno violento, di pianti che bussano. Quelli del figlio, i miei.
Avevo trovato un modo per addormentare mio figlio: spingevo la sua carrozzina sul balcone. Era un balcone piccolo, faceva tre metri per ottanta centimetri. Lo mettevo lì anche in inverno: su e giù finché i suoi occhi accesi come lampioni diventavano piccole curve spente. Intanto guardavo: il mondo.
Sembrava un pianeta estraneo alle mie ore. Immaginavo la gente negli uffici, nei bus, le scrivanie, i negozi dove si spendono chiacchiere adulte. Osservavo la dirimpettaia sbattere quegli strofinacci con cui aveva appena pulito un tavolo, una libreria. Avrei fatto a cambio.
Invece tornavo a intervalli ripetuti a osservare il mio piccolo pegno d’amore, spiavo tra le tende se dormiva ancora, mi avvicinavo furtiva come un ladro. Dentro, il cuore si scuoteva nel timore di vederlo già sveglio.
La vita di una madre può essere di una solitudine alienante.
Anche se scrivi sui social. Anche se stai con una mano sullo smartphone.
Perché ti racconto questo? Perché avevo visto decine, dozzine di madri. E avevano tutte quell’aura di beatitudine. Loro non lo mettevano, il figlio a dormire in balcone a febbraio. Ci avrei giurato. Loro non urlavano come urlavo io certe mattine. Loro avevano quello che mia madre ci ha sempre impartito: lo spirito del sacrificio. E invece divento madre io, e la fatica mi schiaccia come si schiacciano i vuoti di plastica per riciclarli.
Poi vai in strada, scendi nel mondo, che bel bambino!, Com’è bravo!, Che occhi! Complimenti.
La gente che ne sa?
Quando dicevo che lo mettevo a dormire fuori restavano sconcertati. Cosa vuoi che cambi? È come passeggiare, lo vesto, lo copro, mica lo metto fuori così. Però riuscivano a farmi sentire in difetto. Mi vergognavo.
Adesso che sono passati anni, anni di allenamento, nelle notti e nei giorni, ma anche in queste fatiche, nei dubbi, nei buchi neri che ti ci butteresti dentro in certi istanti, e chissenfrega… adesso ti dico: è vero, si è sole.
E non è un cazzo facile.
Però so anche che quelle donne beate che guardavo chissà quanti balconi si sono fatte, e quanti pianti, anche loro. Nascoste in qualche canzone che passa in radio. Oppure annegate in un cuscino, o nella doccia, o la notte mentre il buio le custodisce.
Non esiste solo la depressione post-partum, oppure la gioia incantata. Esiste la normalità: l’amore ha tutto quello che ci vuole. Avete tutto quello che serve. Hai tutto ciò che la vita chiede. Non vergognarti se frani. Non sentirti in colpa. Non crederti inadeguata. Sei come tutte e come nessuna. Sei la fatica di un’ora, sarai la pazzia innamorata un’ora dopo. Sei la fuga, e sei rimanere. Sei uno spazio che diventa angusto e sei infinita. Sei quello che non conosci. Sei una paura. Sei una scoperta. Sei il tempo che ci vuole. Sei una madre.