Ricordo, con enorme tenerezza ed un pizzico di nostalgia, le giornate passate a terra, sul tappeto, a giocare con le mie bambine. Le lunghissime letture, gli sticker attaccati un po’ ovunque, fuorché negli appositi spazi, le storie con i peluche, gli animali, le costruzioni, le canzoni, le filastrocche.
Quelle giornate scandite da una routine inossidabile ed inviolabile, per la quale sembravo essere nata, da un lato, mentre dall’altro ne sembravo solo prigioniera. Avevo la sensazione, a volte, di essere stata sequestrata e di vivere una vita non mia. La mattina al parco, il pomeriggio, dopo la nanna, il tappeto, il pavimento. Ogni giorno uguale al precedente in una sorta di The Truman Show.
Giornate fatte di mattine e pomeriggi lunghissimi, troppo lunghi. Belli, intensi ed al contempo sfibranti, a tratti asfittici. Perché ricordo bene anche quello, quegli schemi, sempre uguali. Erano anche rassicuranti, mi riscaldavano il cuore, mi cullavano l’anima. Eppure, contemporaneamente, mi definivano solo come mamma. Una cosa grossa, ma non siamo solo madri, no?
La ragazza, la donna che era in me, prima e durante, era smarrita. Per quanto, ogni sacrosanta mattina, mi svegliassi con una gioia immensa che vibrava in ogni singola cellula, nonostante partissi ogni giorno con il motore a mille e con il pieno di benzina, nonostante non ci fosse mai stato altro sguardo, rispetto al loro, che mi avesse fatto sentire così grata, fortunata e felice, nonostante questo ed altro, a fine giornata, ero a pezzi e non solo fisicamente.
Contavo le ore, ogni sera, nella speranza che la porta di casa si aprisse prima del previsto, per mollare la presa, delegare e buttarmi in una vasca come anche con la faccia sul cuscino. Forse era troppo, era semplicemente troppo, e nessuno me lo aveva detto.
Oggi, a distanza di qualche manciata di anni, volata come cometa, mi mancano quelle ore certe, e vedo le cose con la giusta distanza. Le vedo come fossi al cinema, su una poltrona comoda, ampia, morbida, sulla quale potrei anche addormentarmi. Perché oggi, se non sto bene, posso concedermi il lusso di sdraiarmi, di riposarmi anche di addormentarmi, ieri non lo potevo fare. Ed è per questo che mi è facile provare nostalgia.
E allora lo dico a gran voce, a chi invece è ancora lì dentro, con bimbi molto piccoli, o anche con la pancia che sta facendo il suo miracolo: no, non è un reato non voler giocare con li proprio figlio tutto il santo giorno! Anzi. È più che normale, legittimo, avere voglia e necessità di pensare un po’ a se stesse. Avere dei momenti personali: dal parlare al telefono con un ‘amica, ad uscire con la stessa o in coppia, lasciando i bambini con la tata, i nonni, gli zii. E dobbiamo dirlo perché tante, troppe di noi, pensano che invece sia sbagliato. Molte soffrono all’idea di non provare una costante gioia immensa, mentre si gioca con i figli. E questo non ha a che fare con il bene che si provi, con l’amore che abbiamo dentro.
No, non è un reato non voler giocare perennemente con i propri figli, dobbiamo fare quello che ci sentiamo dentro. Immolarci, non serve a nessuno. I bambini hanno bisogno di genitori che vogliano il loro bene, che li amino, che li accudiscano. Non hanno bisogno, invece, di martiri. E se siamo sempre lì, tra in lego, un puzzle, una casa delle bambole, un peluche, senza soluzione di continuità, i nostri figli avvertiranno il nostro stato d’animo, la nostra stanchezza. La rabbia, perché il partner fa tardi dal lavoro. Il senso di smarrimento, perché non riusciamo più neanche a mandare un mail. La solitudine, perché non sentiamo e vediamo nessuno a parte loro.
I nostri figli hanno bisogno di presenza ma anche di una mente sana, equilibrata e felice. Pensiamoci, e, se sentiamo che la corda è troppo tesa, non forziamola di più.