Diciamocelo. Semmai sotto voce, rinnegandolo un istante dopo, ma confessiamolo. Ora e poi mai più, ma siamo sincere. Le prime notti, i primi tempi, special modo. Quando siamo stanche morte, dopo che la loro nascita ci ha stravolte, sconvolte, ci ha tolto la terra sotto i piedi. Quando abbiamo capito che non sono bambolotti a comando, quando abbiamo capito che i loro strilli perforanti, incessanti, sono privi di comprensione nei nostri confronti.
Almeno fra di noi, senza farci udire da chi potrebbe giudicarci, facendoci sentire mamme cattive, persone sbagliate, ammettiamolo. Almeno fra di noi, noi che siamo sulla stessa barca, con il mare in tempesta, senza scialuppe di salvataggio: in certe notti non li sopportiamo proprio. Certi giorni ci sentiamo vittime, li guardiamo come piccoli carnefici, senza un minimo di pietà.
I primi tempi, dopo essere tornate dall’ospedale o quando abbiamo già altri figli piccoli a cui badare, o quando il nostro partner ci fa sentire sole, abbandonate, i nostri sentimenti di madri vacillano. Quell’immenso desiderio di maternità, quella voglia di dare una nuova forma ed un nuovo colore alla coppia, alla famiglia, allargandola un pochino di più, non sappiamo che fine abbia fatto.
Ci guardiamo allo specchio ed il riflesso ci restituisce frustrazione, trasandatezza, disperazione. Ed intanto, nella culla o nel seggiolone, qualcuno continua ad urlare, a piangere e non capiamo il perché.
Ci hanno sempre detto che una mamma lo sa. Lo sa sempre cosa vogliano dire e cosa si possa fare, ed il fatto di non capirci un cazzo, in quel momento, ci fa sentire ancora più sbagliate. Ci fa sentire che qualche tassello non è al proprio posto, per colpa nostra. Per colpa loro.
In certe notti lunghe e buie. In certi pomeriggi invernali, freddi, umidi, tetri. In certe mattine sudate, di piena estate, quando vorremmo fare tutt’altro, tipo recuperare il riposo notturno, ed invece dobbiamo combattere con le coliche, i ruttini che non arrivano, i rigurgiti, i capricci.
Ci hanno detto tutto sulla maternità.
Ma una cosa non ce l’ha confessata nessuno: che una mamma, a tratti, può essere anche capace di odiare. Odiare se stessa, per come sta diventando. Odiare il partner, per quello che non fa. Odiare il proprio figlio, perché non lascia tregua.
E quando una mamma odia, seppur sia il tempo di un secondo, siccome nessuno glielo ha detto che può far parte del pacchetto, la mamma si sente persa, confusa, cattiva, sbagliata.
Una mamma, i primi tempi, alle prime armi, cammina su un ponte tibetano: da un lato la felicità, dall’altro lo sconforto, la solitudine, sotto, la paura. Lo vorrebbe attraversare lentamente, quel ponte, per non rischiare di cadere. Con il giusto tempo, le giuste mosse, per arrivare ad abbracciare l’amore. Per accogliere, donare, gioire. Ma una mamma non può farlo: deve correre, sempre. Un pianto, uno strillo, un capriccio, i rumori dei piatti in frantumi, del giocattolo sonoro, della sedia che cade. Ad una mamma non rimane che correre e quella corsa fa vacillare il ponte. E scatta la paura. Lo sconforto. L’odio.
Diciamocelo. Semmai sotto voce, rinnegandolo un istante dopo, ma confessiamolo. Accade spesso all’inizio a quasi tutte. Non c’è da vergognarsi, ma da condividere. Affinché altre non si sentano sole. Sbagliate.
Perché passa, amiche mie. Passa. Giunte dall’altro lato del ponte, ci aspetterà nostro figlio e saremo pronte ad abbracciarlo come meglio merita lui, come meritiamo noi. Con un amore immenso che non lascia spazio ad altro.