Le ultime settimane di gravidanza sono per tutte le donne quelle più cariche di tensione e di stress, con tante domande su come sarà il momento del parto e qualche apprensione sulla salute del nascituro. Per monitorare il benessere del feto in questa fase, fin dagli anni Settanta in Italia è stata introdotta la cosiddetta cardiotocografia, un esame diagnostico che misura il battito cardiaco del bambino e rileva l’eventuale presenza di contrazioni dell’utero materno e la loro frequenza.
La cardiotocografia è sostanzialmente un’ecografia da eseguire a vescica vuota, con due sonde che vengono posizionate sulla pancia della futura mamma (tenute in posizione da due fasce elastiche) e permettono di ottenere simultaneamente due tracciati, che verranno messi poi in correlazione fra loro: come detto, uno registra l’attività cardiaca del bambino e l’altro le contrazioni della gestante.
Eseguita in genere a partire dalla 36a settimana, la cardiotocografia viene spesso effettuata anche durante le fasi del travaglio. L’esame può avere una durata variabile dai 20 ai 90 minuti ed è indolore, privo di controindicazioni o di rischi tanto per la mamma quanto per il bambino.
Un caso in cui la cardiotocografia si rivela particolarmente utile è quando, nonostante si siano già completate tutte le settimane di gravidanza, il bambino ancora non nasce: in questi casi, rilevando il battito cardiaco, la cardiotocografia serve e escludere il pericolo di morte del feto. Infatti, se il tracciato mostrasse delle anomalie, il medico avrà così in mano i dati necessari per decidere un eventuale intervento con il parto cesareo.
In un tracciato cardiotocografico normale la frequenza cardiaca del feto (definita “linea di base”) dev’essere compresa fra i 120 e i 160 battiti al minuto, non deve presentare nette decelerazioni mentre le accelerazioni devono esserci, nell’ordine di oltre 5 battiti al minuto rispetto alla frequenza basale.