C’era questa donna col piccolo nel passeggino, su e giù lungo il torrente. Ho sbirciato: dormiva.
I miei tre invece erano lungo le sponde a fare dighe di sassi e piste nella sabbia. Isabelle a volte dorme ancora, di giorno, di rado.
Sono passati pochi mesi dai suoi sonnellini regolari: sembrano decenni.
Il padre parcheggia il passeggino vicino a una pianta, parla al cellulare, la madre lo redarguisce: “Zitto!”
Sorrido. Sorrido di tutte quelle volte che un solo suono stanco pareva un attentato. Cosa rimane, di tanti anni? Quanti anni hanno dormito, i miei figli? Quasi dieci, uno inanellato all’altro.
Quando nacque Isabelle, Sarah aveva tre anni, Patrick cinque. Li facevo dormire ancora, dovevo salvarmi e ristorarmi dalle notti infami che la piccola ci infliggeva.
Li prendevo all’asilo, lei nella carrozzina: c’erano volte che si addormentava per strada, allora svelti, tutti, e zitti, dicevo. Facevo come quella madre. Speravo di arrivare a casa, metterli a letto, e poi trasferire lei con mosse caute, come un ladro che ruba.
Sì, mi sentivo come un ladro: perché anche se i due grandi dormivano volentieri e sapevo che non li stavo costringendo, tutto questo carosello era per la piccola e per me: ero esausta.
Il più delle volte finiva che appena avevo messo a letto loro due, lei già agitava la carrozzina. Tante fatiche, e conteggi: per nulla.
Adesso ce ne andiamo senza orari.
Capita che si esca all’una, perché al mattino le due bambine hanno dormito fino alle dieci e mezzo, e poi non c’è più urgenza, in vacanza. Li guardo e sono in mezzo tra due forze uguali e contrarie: sollievo, e nostalgia.
Non ho più ore da spendere piegata su un pupazzo che suona, tirare una finta coda. Passare una mano sul dorso, guardare il piccolo che trova sempre quella sua buffa posa, il sedere in alto come un dosso. Non ho più la schiena piegata anch’io, un altro dosso, le braccia che pescano nel lettino per rassicurare.
E poi prendere quel piccolo corpo scosso, che si ribella, che s’acquieta un attimo eppure non cede. Su e giù: quanti metodi, abbiamo provato? Di nuovo al seno, ancora in braccio, ancora la coda del carillon che suona, di nuovo una canzone che ti canto io: “Adesso dormi, però”.
Magari poi ti durava venti minuti. Un’ora di corrida, per venti minuti di riposino. Se invece te ne fregavi, dai oggi va così, in capo a un paio d’ore avevi una belva isterica. Sapevi che ci vuole costanza, ti riprometti: domani tengo duro, il sonnellino deve farlo, altrimenti non prende gli orari, diventa impossibile.
Come si addomesticava, la casa, quando poi finalmente dormiva.
Era il mio tempo. Era due corpi stretti nel giorno, fuori dalle ore del mondo. Era un seno, prima, poi divenne un braccio che ti vengono le formiche ma resisti. Se non mi addormentavo restavo lì comunque: a inspirare l’aria che il figlio espirava. Lui lasciava andare, io prendevo: quella sua stessa vita, quel suo odore di sonno e saliva di bebè.
Diventa facile, adesso, ricordare anche la parte più bella: accanto alle battaglie. Il sonnellino era una salvezza e un dono prezioso, non solo una condanna. Condizionava le uscite, i viaggi in macchina che “si parte quando deve dormire, così sta buono”.
Nelle gite non c’era mai speranza, in quello zaino porta bebè. Così si tornava guardando l’ora, sforando irrimediabilmente. Si rimediava come si poteva. Ma è stata la nostra vita per dieci anni. Un figlio dopo l’altro, ogni giorno: come non finisse mai.
Il bimbo in quel passeggino che guardo, sotto la pianta, si è svegliato. Sua madre torna, fa un piccolo sbuffo. Muove due passi, su e giù. I miei giocano allegri.