Non c’è bambino che non sia caduto, non abbia avuto un disturbo, un malanno, un dolore. Certe evenienze accadono e basta, puoi solo arginare, intervenire. Esserci.
Potevo fare meglio, accorgermi prima? Può darsi.
La verità, però, è che ci sono episodi in cui io, la madre, sono stata artefice di un rischio. Una disattenzione, ti volti, non vedi, e quando ti accorgi il fiato si rapprende, si raggruma una vita.
Tre figli: per ognuno di loro ho un fatto infelice da annoverare. Perché ogni madre sbaglia.
Patrick aveva pochi mesi, cinque, sei, e un pigiamino azzurro. L’ho sollevato e poi l’ho capovolto in una specie di capriola per farlo sorridere. Così per un momento lui è a testa in giù, ride, forse. Non è pesante, è un gioco stupido di quelli che fanno sempre i genitori a un certo punto. Di quelli che piacciono ai bambini. Solo che invece una mano sbaglia nella presa, è un secondo, non so cosa e perché: una mano sola non basta e lui scivola per un pezzo.
Non cadde a terra, riuscii a fermarlo prima che il pavimento lo prendesse per me. Però ricordo lo spavento, ricordo quel gesto e quell’istante come una belva che di colpo aggredisce. Alla paura seguono sensi di colpa feroci, tremavo. Lui non accusò nulla, chissà cosa pensò, che era parte del gioco, forse.
Perché i nostri figli si fidano, si fidano oltre quello che possiamo.
Qualche anno più tardi ero in giro con Sarah, spingevo il passeggino per le strade della mia città. Le scarpe erano troppo larghe, i lacci slentati, così mi fermai. Non ho scelto dove riallacciarli, lascio le mani dal passeggino, stringo quei lacci, Milano è pianeggiante, liscia come una tavola da surf. Sono chinata su quelle maledette scarpe da ginnastica e il mio cono visivo è lì, ridotto a pochi centimetri di marciapiede. A rialzarlo una voce poco lontana, esala: “Oh cazzo, cazzo!”
Io sollevo la testa, non capisco, guardo: il passeggino è scivolato fuori dal marciapiede, sceso dal carraio che dà sulla strada. È una strada enorme, macchine che corrono, che non vedono, vanno. Solo quell’uomo ha visto, e adesso anche io: dove diavolo mi sono fermata? Dove ho scelto di farlo? Corro, lo recupero. È solo a poche spanne dal marciapiede, le auto sono più in là, le auto per fortuna non sono a filo con questo spazio pedonale.
Però Sarah è lì, placida. È lì in strada nel suo guscio che crede sicuro. Non avevo messo il freno: non so come ma il passeggino è scivolato e ha trovato la lieve pendenza dove comincia il carraio, e poi l’ha imboccato, muto e disobbediente. Fermate sempre il passeggino col freno. Non fidatevi mai.
L’ultima che ricordi è un’imprudenza con Isabelle. Ce n’è più di una, ma questa mi ha sorpreso, inattesa, ed ero la sola responsabile.
Camminavamo su uno sterrato, l’ho fatta scendere dal passeggino per fare due passi su quel ponte, i bambini adorano i ponti, le cose sospese. Lei si affaccia tra le assi di legno della balaustra. Si sporge. E d’improvviso mi accorgo che è piccola, esile e minuta. Ci passa attraverso.
Un solo attimo in più e potrebbe cadere. Per quanto basso sia il salto, e piccolo il fossato. Forse non è nemmeno pieno d’acqua. Non lo so, perché io sono un po’ indietro, la guardavo e facevo stupide foto idiote. Idiota. Io. Corro, grido: “No, Isabelle! Vieni qui!”
L’ho presa, il suo vestitino svolazzava, lei era serena. Io sono rimasta per lunghi fiati più sospesi di quel ponte a chiedermi cosa sarebbe successo. E perché non avevo misurato le proporzioni.
E poi non si dimentica. Si ricorda e si ringrazia. Ci si sente stupide: perché una madre dovrebbe essere il posto più sicuro per un figlio. Ma ci si perdona.