Ritardi del linguaggio: non abbiate paura!

È tornato da scuola nervoso. Non sa schioccare la lingua.
“E nemmeno le dita.”
Dice che non gli insegniamo mai niente.

A volte ritornano, affiorano come alghe dal solco degli anni. Segni rimasti, memorandum delle fatiche di allora.
A volte mi chiedo cosa e quanto ricordi. Noi altri: tutto.
Fu un impegno per ognuno di noi, ognuno sentì l’amarezza e il peso a suo modo: noi genitori, lui nel suo piccolo mondo lontano, perfino Sarah, sorellina di pochi mesi, perché un ritardo nel linguaggio e nelle relazioni grava su tutta la famiglia, e c’era sempre qualcosa da spiegare, le cure esclusive che dovevamo dedicare a lui, le terapie, le uscite. E spiegarlo non bastava mai.

Abbiamo cominciato presto: un bebè di due anni che credevamo timido, che passava il tempo a leggere senza leggere e giocare senza giocare. Gli bastava una macchina da scivolare sui parapetti di qualche scala, gli bastava un quotidiano da fissare e sfogliare. Siamo davanti a una neuropsichiatra, un camice bianco, giochi per la stanza che lui non tocca: suo padre, io con il pancione. Lei gli dà un’occhiata, il piccolo sta lì: capisce ogni domanda, a ogni domanda risponde “Hm.” È il solo suono che conosca, il solo che pronunci. Poi si inabissa tra le gambe del padre, si chiude nella cassaforte delle sue piccole ossessioni.

Credo sapesse, forse prima di noi, che qualcosa mancava. La curiosità, lo slancio, la sfida. Gli strumenti per metterli a segno, tentare, riuscire. Allora col tempo si è costruito le sue verità, diverse da quelle magiche dei bambini. Le sue paure, i suoi strilli. Le nostre pazienze.

Abbiamo fatto più di tre anni di terapie: psicomotricità, logopedia, controlli. Avanti e indietro come un lavoro. Quaderni, esercizi. Persone straordinarie che hanno ripescato dall’ignoranza una famiglia, le hanno dato remi e barca, prima. Poi un litorale. Perché i genitori di un bambino con ritardi di sviluppo non sanno cos’abbia, non sanno come comportarsi, non sanno.

E adesso la famiglia se ne va per la sua strada, saltellando felice. E non è rimasto nulla di allora, tranne il ricordo. E una lingua che non sa schioccare.

“Non importa” gli dico.
“Sì che importa, serve per la lezione di musica, per tenere il tempo.”

I bambini sanno la diversità. Quella che noi adulti a volte minimizziamo.

Per questo mi sento di dirvi: non abbiate paura.
Se avete un dubbio, uno soltanto, non affacciatevi ai social network. Se le conferme comuni non vi rassicurano, chiedete al medico. Fate una visita, una sola. Amate il vostro bambino tanto da non avere paura.

 

5 commenti

Lascia una risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

  1. Ciao, mi sono emozionata leggendo.. devo dire che ho paura e non so cosa aspettarmi, spero solo di risolvere prima possibile. Hai ragione, bisogna amare i nostri figli tanto da non aver paura..
    Grazie!

  2. devono essere stati tempi difficili….non riesco ad immaginare l’ angoscia….quando un sospetto si concretizza, la paura di non saper affrontare il problema….deve averti regalato una forza nuova quel tempo….la forza che si affaccia sulle tue parole….

    • Sono tempi che mi hanno segnata. E’ strano: da una parte dimentichi, ti sembrano di un’altra vita, di un’altra donna, un altro figlio. Dall’altra sono appena sotto pelle, appena richiami il ricordo senti ancora tutto. Ne siamo usciti vincitori, i terapeuti erano bravissimi. Però non tornerei indietro…

    • Sto vivendo il tuo stesso percorso. .. il vostro stesso percorso. .. un bambino di tre anni che non parla, una neuropsichiatra che dice che ce la farà. ..un logopedista che oggi ha detto. ..è un problema di intersoggettivita’, ma non è un caso grave… è un caso semplice. sì ma quando potrò girarmi e dire è finita anche per noi? Il tuo scritto mi ha emozionata, ho pianto… Congratulazioni a voi tutti…